Il racconto del nostro responsabile, Davide, che ha messo a punto una nuova destinazione per un viaggio in moto inedito ed esclusivo, fino al campo base dell’Everest.
Ci sono luoghi dove il tempo sembra essersi fermato, luoghi in cui il tempo corre veloce e luoghi in cui il tempo vorrebbe fermarsi: un’utopia, certo, ma qui in Tibet la sensazione di questo paradosso è forte.
Tradizioni e antiche abitudini permeano ogni momento del giorno in antitesi con un progresso inesorabile, incontrollato e prepotente. In questo angolo di mondo ostile alla vita si scontrano, come mai in altri luoghi, due società tanto vicine e tanto diverse: una prevale, l’altra stenta a sopravvivere schiacciata dal nuovo che avanza senza scrupoli. La più antica è legata ad una tradizione religiosa tra le più affascinanti della storia della teologia, l’altra è votata al profitto ad ogni costo.
Spalmato sul versante settentrionale della più alta catena montuosa del mondo, il Tibet è un paese impegnativo da vivere per chi non c’è nato o per chi non lo frequenta per lunghi periodi: ad un’altitudine media costantemente oltre i 4000 metri sul livello del mare, la carenza di ossigeno si fa sentire senza complimenti e adattarsi è davvero difficile. Le prime 48 ore dall’arrivo nella capitale della regione “autonoma”, Lhasa, sono le più impegnative: nausea, emicrania e spossatezza si manifestano con una puntualità “svizzera” nella maggior parte dei nuovi arrivati; litri d’acqua e assoluto riposo sono la cura migliore per cercare di fronteggiare questa situazione geografica così ostile. Il rischio di ipossia è remoto ma non bisogna prenderlo troppo sotto gamba e questo ce lo ricorda la maggior parte degli hotel dove su ogni comodino, accanto al telefono e alla lampada da lettura, troneggia una macchina per l’ossigeno… in caso di necessità. Il nostro organismo è infatti tarato per una specifica quantità di ossigeno diluito nell’aria che respiriamo, ma “quassù” questa quantità viene meno e il fisico è in difficoltà: anche un minimo sforzo diviene un’impresa titanica.
Nella mia immaginazione Lhasa è una piccola città persa tra le alte montagne dell’Himalaya ma all’arrivo mi devo ricredere: palazzi, moderne costruzioni ed edifici avveniristici fanno da scenografia ai viali a quattro corsie che raggiungono l’impianto urbano originale. Una selva di cantieri senza soluzione di continuità è ciò che il finestrino del minibus mi presenta mentre mi avvicino al centro storico. L’enorme palazzo Potala, il simbolo della città, domina il centro e riesce a sminuire tutte le nuove costruzioni viste fino ad ora. La città brulica di persone, turisti e di monaci. E’ buffo vederne gruppi più o meno numerosi aggirarsi per le strade facendo acquisti, bevendo caffè e indossando scarpe sportive sotto il tradizionale abito rosso.
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Prima di salire in moto, seguo i consigli locali e mi trattengo tre giorni nella città: trascorro quasi un’intera giornata per la visita del Potala e dei sui dintorni. Il palazzo è la sede della guida spirituale del Paese, il Dalai Lama che è stato confinato in India per le sue idee di indipendenza del Tibet. La questione è spinosa e servirebbero pagine e pagine per raccontarla con attenzione ed oggettività.
L’interno del Palazzo non è fotografabile ed anche se visitabile solo in parte, impressiona per la sua imponenza e bellezza; l’enorme scalinata da salire per raggiungere l’ingresso, unita all’ormai nota carenza di ossigeno, mette tutti a dura prova e non è raro trovare persone cianotiche e in pessime condizioni accasciate lungo i gradini o in prossimità dell’ingresso.
Gli accesi colori dell’edificio si stagliano contro il cielo terso e sono il preludio di quanto di meraviglioso vedo all’interno; un bellissimo percorso negli ambienti più caratteristici del palazzo che sono la sede e custodia dell’antica tradizione e filosofia buddista. Monumenti, statue e dipinti risalenti ai secoli scorsi raccontano quella che tutt’ora è la principale religione del paese e non solo.
E’ tempo di partire e lasciare la città: gli obiettivi principali di questo viaggio sono, tra gli altri, il campo base dell’Everest, il Monastero di Tashilhunpo e il grande lago Namtso, il più alto lago salato al mondo.
Posso scegliere tra diverse moto ma la BMW F800 credo sia l’ideale per questo itinerario: da quanto ho potuto vedere prima della partenza, la maggior parte delle strade è asfaltata ma potrebbero esserci anche tratti di fuori strada di cui ignoro le condizioni. Ne noleggio una con assetto ribassato, il mio essere diversamente alto non aiuta su queste enduro e maxi-enduro tanto vendute nell’ultimo decennio.
Parto in direzione S-O. La prima periferia e le prime decine di chilometri sono caratterizzati da un traffico inatteso di mezzi pesanti in ogni direzione di marcia; respiro con difficoltà e non per mancanza d’aria ma perché lo scarico di questi bestioni smarmittati crea nubi tossiche impressionanti e difficili da attraversare. Il fondo stradale è buono ma peggiora decisamente quando il traffico si dirada e la strada si arrampica sul passo Gamba Chuoguo fino ad oltre 4700 metri sul livello del mare; una breve sosta per evitare gli effetti della quota e poi di nuovo verso valle costeggiando uno dei tre più grandi laghi sacri della regione, lo spettacolare Yamdrok le cui acque sembrano dipinte ad olio su tela. La strada scende rapida e ripida sulle sponde del lago che poi lambisce per diversi chilometri: il panorama è di grande effetto e il percorso stradale sembra disegnato apposta per chi lo affronta sulle due ruote.
L’ennesimo posto di blocco per il controllo dei documenti è l’ultima sosta prima di arrivare a Shigatse, seconda città della regione per numero di abitanti e sede del bellissimo monastero di Tashilhunpo che visiterò nei prossimi giorni.
La strada prosegue verso ponente per poi piegare decisamente verso sud. Per raggiungere Tingri, piccola cittadina di non grande interesse ma ottima sosta per arrivare al campo base dell’Everest, è necessario valicare uno dei passi più belli dell’intero viaggio e della regione: una serie di oltre 100 tornanti che sale fino ad oltre 5100 metri di quota sul livello del mare, il Pang La. Sono elettrizzato all’idea di affrontarlo e mi spiegano che proprio sul valico esiste uno dei “mirador”, come li chiamano in Sud-America, della grande montagna himalayana e che sarebbe meglio arrivarci all’aurora.
L’aria è fresca alla partenza ma tornante dopo tornante la quota sale velocemente e la temperatura precipita fino a pochi gradi sotto lo zero in prossimità del passo. Il punto panoramico, il mirador appunto, è appena sopra il valico e l’F800 fatica un po’ sulla ripida pietraia da percorrere per raggiungerlo; la ruota anteriore da 21 è stata comunque la scelta migliore, in occasioni come questa è di grande aiuto.
Sono disorientato, il buio è intenso e intuisco che il cielo è coperto per la totale assenza di stelle; comincio a dubitare di essere nel luogo giusto. Le luci di un 4×4 che sta salendo mi rincuorano quando illuminano una stele di pietra dove è riportato il profilo delle montagne che si dovrebbero vedere da lassù. L’attesa è piena di aspettative fin quando il sole illumina il tappeto di nuvole che mi sovrasta. Intuisco che all’orizzonte il colpo d’occhio su tante vette oltre gli 8000 sarebbe unico ma le nuvole, inesorabili, celano ciò che mi ha spinto fin qui. Poco male: le migliaia di bandiere tibetane che coloratissime si librano nel vento teso e freddo sono un spettacolo che ripaga a pieno ciò che non posso vedere e poi, del resto, come pretendere di arrivare qui e vedere al primo tentativo il “tetto del mondo”? Prendiamola con filosofia… buddista!
Raggiungo la strada principale ripercorrendo la pietraia in discesa e mi rendo conto che il buio l’aveva resa più complicata di quello che di fatto è; la serie di tornanti che scende dal passo è degna di un circuito da MotoGP: una serie infinita di curvoni di vario raggio e tornanti stretti scende verso valle con un asfalto perfetto. Pochi istanti di divertimento e mi devo attaccare alla leva del freno: là in fondo e sopra la coltre di nubi si staglia imponente e maestoso il Chomolungma (nome tibetano dell’Everest). Fermo la moto e rimango incantato davanti a questa piramide di pietra di 8848 metri che spero di vedere ancora dal campo base perché è là che sto andando.
Ero convinto di raggiungere il campo base in moto ma hanno appena istituito un servizio di navette elettriche, che parte da un enorme parcheggio; chiedo comunque se sia possibile proseguire ma un categorico “NO” cinese non lascia spazio a molte repliche e mi siedo sul piccolo bus. Il campo consta di una serie di tende e baracche di scarso interesse oltre ad un tempio buddista sul versante sinistro della valle, lo Zha Rong Bu Si, il più alto al mondo. Di fatto non si tratta del vero campo base da cui partono le spedizioni del versante settentrionale, quello rimane qualche centinaio di metri più in alto. Da qui l’Everest è decisamente più vicino e la sua presenza è ancor più imponente.
Una zuppa calda nell’unica locanda presso il campo base è ciò che di meglio posso desiderare per questo momento; la finestra che ho di fronte punta dritto verso la vetta che lotta continuamente con le migliaia di nubi che cercano di nasconderne la maestosità. Negli attimi in cui il suo profilo spacca l’azzurro del cielo, si intuisce la grandezza delle imprese alpinistiche e degli eroi che hanno affrontato questo gigante della natura fin dal 1953.
Torno sui miei passi attraverso gli stessi paesaggi e le stesse strade che ho percorso per arrivare fin qui; come sempre un itinerario in senso opposto è un altro itinerario e mi rendo conto dello spettacolo che mi ero perso nel bramare il campo base; rallento, apro il casco modulare e respiro quest’aria rarefatta e fredda che tanto rende difficile la permanenza in questo angolo sperso del pianeta. Intorno a me montagne brulle dalle candide vette aguzze alle cui pendici vagano enormi branchi di quei simpatici bestioni pelosi chiamati Yak. Sono chilometri interminabili, felicissimo che siano tali!
Eccomi di nuovo a Shigatse, lascio la moto e raggiungo il Monastero di Tashilhunpo a piedi: un chilometro lungo la strada principale i cui marciapiedi sono occupati da una bancarella dietro l’altra senza soluzione di continuità; il monastero è uno dei più importanti e più grandi della regione e il business religioso, come in ogni parte del mondo, non è da meno. Collane, bracciali, statue e tutta l’oggettistica legata al culto buddista è in bella esposizione sui colorati banchi del mercato dove i prezzi oscillano e si trattano come in una medina magrebina. Il tutto è “condito” da tutti quegli apparecchi “made in China” che diffondono i mantra della preghiera tibetana a volumi da rave party, una sorta di cortocircuito antropologico alle porte di un luogo di culto così importante per la tradizione locale.
Il monastero si presenta come una piccola cittadella con tanto di viuzze e piazzette; una sorta di villaggio interno alla città dove la fa da padrone l’edificio principale in perfetto stile tibetano. Ho la fortuna di assistere alla riunione dei monaci prima dell’inizio della principale preghiera del giorno. Una moltitudine di giovani e giovanissimi uomini nel tradizionale abito ocra e dai vistosi copricapo, si riuniscono in un loggiato dalle colonne lignee dove, togliendo le calzature intonano a gran voce un canto prima di entrare nella sala della preghiera; l’aria è satura di incenso a base di ginepro che, come in Mongolia, accompagna tutte le preghiere. L’olfatto accende ricordi nascosti e per un battito di ciglia rivivo quel viaggio di tanti anni fa. Ho i brividi.
Ancora qualche chilometro sulle stesse strade per poi mettere la prua a Nord Est su nuovi percorsi alla volta dell’immenso lago Namtso. Il lago si raggiunge attraverso un altro passo a 5000 metri dalla cui sommità si gode un panorama spettacolare sulla regione che ospita lo specchio d’acqua salata più alto al mondo. Le lande desolate che si percorrono per raggiungere il lago sono contornate da una miriade di altissime vette perennemente innevate; il colpo d’occhio è impressionante soprattutto in prossimità delle rive del lago le cui acque virano dall’azzurro al turchese al blu cobalto. Il piccolo promontorio sul lato sud orientale ospita un piccolo tempio nascosto fra alte rocce dal quale la vista sul Namtso è impressionante.
Rientro verso Lhasa, il mio tempo in questo paradiso montuoso è agli sgoccioli; il brulichio della città è quasi fastidioso dopo i giorni trascorsi in luoghi remoti e silenziosi. Non mi sono mai adattato alla mancanza d’ossigeno; i fastidiosi risvegli notturni per tirare lunghi respiri mi hanno accompagnato notte dopo notte, ma tornerei in Tibet già domani per vivere ancora in mezzo a questo popolo mite, silenzioso e rispettoso di quella natura spettacolare che lo circonda.
Raccolgo e ordino gli appunti di questi giorni: tracce, locande, ristoranti, hotel, note e biglietti da visita; il viaggio si può organizzare e sarà spettacolare.